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      E non dico se a torto o a ragione, ma mi pregio di raccontare questa prova di costanza ch'ebbi sotto gli occhi.
      Giunti a Venezia, lascio pensare a voi la consolazione dell'Aquilina, e la gioia di Donato! Ma la salute di questo, che si sperava dovesse ristabilirsi affatto nell'aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita diede prima sentore di volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei medici chi opinava che fosse leso l'osso e chi d'una scheggia di mitraglia rimasta in qualche cavità. Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il solo malato allegro sereno ci confortava tutti ridendo assaissimo della burla da lui accoccata ai frequentatori di casa Fratta, e godendo di udir narrare da Bruto le grandi boccacce ch'essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione sentenziando: tale il padre tale il figlio. Io per me era piú disposto a insuperbire che ad offendermi d'un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista di cotali parole che forse egli credette ingiuriose all'ultimo segno. D'altra parte pur troppo era occupato di piú gravi dolori. Donato andò peggiorando sempre e alla fine si morí sullo scorcio dell'autunno. Fra tutte le sciagure ch'ebbi a sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana, fu la piú atroce ed inconsolabile.
      Tuttavia il mio dolore fu un nulla appetto alla disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò piú la morte di Donato come se appunto io ne fossi stato il carnefice.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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