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      In cuor riposte ne teniam noi tuttile divine parole, e voi ne foste
      testimoni, voi sì quanti la Parca
      non aveste crudel. Parmi ancor ieriquando le navi achee di lutto a Troia
      apportatrici in Aulide raccolte,
      noi ci stavamo in cerchio ad una fontesagrificando sui devoti altari
      vittime elette ai Sempiterni, all'ombrad'un platano al cui piè nascea di pure
      linfe il zampillo. Un gran prodigio apparvesubitamente. Un drago di sanguigne
      macchie spruzzato le cerulee terga,
      orribile a vedersi, e dallo stessore d'Olimpo spedito, ecco repente
      sbucar dall'imo altare, e tortuosoal platano avvinghiarsi. Avean lor nido
      in cima a quello i nati tenerellidi passera feconda, latitanti
      sotto le foglie: otto eran elli, e nonala madre. Colassù l'angue salito
      gl'implumi divorò, miseramentepigolanti. Plorava i dolci figli
      la madre intanto, e svolazzava intornopietosamente; finché ratto il serpe
      vibrandosi afferrò la meschinellaall'estremo dell'ala, e lei che l'aure
      empiea di stridi, nella strozza ascose.
      Divorata co' figli anco la madre,
      del vorator fe' il Dio che lo mandavanuovo prodigio; e lo converse in sasso.
      Stupidi e muti ne lasciò del fattola meraviglia, e a noi, che dell'orrendo
      portento fra gli altari intervenutoincerti ci stavamo e paventosi,
      Calcante profetò: Chiomati Achivi,
      perché muti così? Giove ne mandanel veduto prodigio un tardo segno
      di tardo evento, ma d'eterno onore.
      Nove augelli ingoiò l'angue divino,
      nov'anni a Troia ingoierà la guerra,
      e la città nel decimo cadrà.
      Così disse il profeta, ed ecco omaitutto adempirsi il vaticinio.


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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483

   





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