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      giusta il dovuto, a ripartirsi il resto.
      Mentre intenti ne stiamo a queste cose,
      e offriam per tutta la cittŕ solennisacrifici agli Eterni, ecco nel terzo
      giorno gli Elči con tutte de' lor fantie cavalli le forze in campo uscire,
      ed ambedue con essi i Molďoni,
      giovinetti ancor sori ed inespertinegl'impeti di Marte. Su l'Alfčo
      in arduo colle assisa č una cittadeTrďoessa nomata, ultima terra
      dell'arenosa Pilo. Desďosidi porla al fondo la cingean d'assedio.
      Ma come tutto superaro il campo,
      frettolosa e notturna a noi discesedall'Olimpo Minerva, ad avvisarne
      di pigliar l'armi; e congregň le turbeper la cittade, non giŕ lente e schive,
      ma tutte accese del desěo di guerra.
      Non mi assentiva il genitor Nelčo
      l'uscir con gli altri armato; e perché destronel fiero Marte ancor non mi credea,
      occultommi i destrieri. Ed io pedonev'andai scorto da Pallade, e tra' nostri
      cavalier mi distinsi in quella pugna.
      Sul fiume Minďčo che presso Arena
      si devolve nel mar, noi squadra equestreposammo ad aspettar l'alba divina,
      finché n'avesse la pedestre aggiunti.
      Riunito l'esercito, movemmoben armati ed accinti, e sul merigge
      d'Alfčo giungemmo all'onde sacre. Quivipropizďammo con opime offerte
      l'onnipossente Giove; al fiume un torosvenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta
      a Palla una giovenca. Indi pel campopreso a drappelli della sera il cibo,
      tutti ne demmo, ognun coll'armi indosso,
      lungo il fiume a dormir. Stringean frattantod'assedio la cittade i forti Elči
      d'espugnarla bramosi. Ma di Marte
      ebber tosto davanti una grand'opra.


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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483

   





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