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      O viceversa, che farà di lui, come di ogni "eroe", un comune e semplice uomo.
      In questa inedita versione, Ulisse scrive. Scrive perché la riconquista della lingua è al tempo stesso approdo alla patria e riassunzione della propria antica identità. È vero, l'Ulisse ritornato in patria è ora inscindibile da quello che ideò il cavallo di Troia, che accecò il ciclope, che scese all'Ade. Quegli "anni di vagabondaggio" sono scritti sulla sua pelle, sul suo volto, sono esperienze di vita che consolidano la primitiva identità; quegli anni sono stati perciò anche "anni di apprendistato".
      La gestazione della poesia si può paragonare a un percorso ascetico attraverso il quale lingua e pensiero vengono riscaldati, messi in movimento, purificati nel crogiolo delle emozioni vissute nella realtà, rimeditate, re-fuse e rivissute nel momento ispirato della scrittura, momento che è anche urgenza, necessità, élan, Drang. Diventa la presa di coscienza di una nuova identità, si cambia pelle, e su questa, come su una pergamena, si consegna il miracolo della parola che può ambire ai vertici dell'arte.
      Ed è proprio nell'Ascetica che Nikos Kazantzakis descrive la metamorfosi individuale e collettiva che si realizza con la parola poetica: parola che viene creata ex novo nell'atto di invenzione e che è creatrice di nuovi sensi e significati negli ascoltatori, come un seme caduto in fertile zolla.
     
      Siamo una umile lettera, una sillaba, una parola resa dalla gigantesca Odissea. Siamo immersi in un immenso canto e brilliamo come brillano le umili conchiglie fino a che sono immerse nel mare.


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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