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      Nell'ardue imprese, mi pestavan l'orma. 560
      d 435 Dal sen dell'alto sale in che s'immerse,
      Quattro Idotèa recò velli di Foche
      Dianzi scuoiate, per lo astuto ingannoChe al genitore ordì. Là nell'arena
      Scavò i covili e ci attendea seggendo. 565
      Ratto le ci appressammo; uno appo l'altroCorcar ci féo la Diva e un cuoio addosso
      A ciascuno gittò. Molesto e graveL'agguato ci tornò, ché ci affogava
      Di quelle in fondo al mar nutrite belve 570
      Il pestilente lezzo. Oh! chi potrìaAd un mostro marin giacersi accanto?
      Ma tal rimedio immaginò la Diva,
      Che a morte ci rapì: stillò a ciascunoSotto le nari ambrosia che d'intorno 575
      Diffuse alma fragranza e sì 'l malignoVapor disperse dell'equoree belve.
      Stemmo tutto il mattin quivi aspettandoCon intrepido cor; dall'onde a schiere
      Accorsero le foche e a mano a mano 580
      Tutte quante distésersi sul lito.
      Emerse il veglio in sul meriggio e pinguiTrovò le foche; ne percorse il gregge,
      Noverolle e tra lor contò noi primi.
      Né in cor gli s'ingerì nullo sospetto 585
      Del tramàtogli inganno, ond'ei pur giacque.
      Con grida alte irrompemmo e gli avventammoLe braccia addosso. Ma non pose il vecchio
      L'arti usate in obblìo: già già diventaDi gran giubba leon, càngiasi poscia 590
      In drago ed in pantera e in verro enorme;
      Or vòlto in rio, giù corre ed or verdeggiaD'alto-chiomata fronte albero eccelso.
      Ma noi di fermo cor, saldo il tenemmo.
      Posto a sì fiere strette e illanguiditi 595
      Sentendo il vecchio astuto in sen gli spirti,
      Interrogommi: "Qual de' Numi, Atride,
      Ti consigliò di prendermi per forza


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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