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      Ti vanti di costoro àugure, certoSpesso in questo palagio orasti a' Numi, 415
      Che da me fosse il dì lunge respintoDel mio dolce ritorno, e che te segua,
      A te figli procrei la donna mia;
      No, da questa crudel morte non fuggi."
      ? 326 Così dicendo, con la man robusta 420
      Diè di piglio alla spada, che Agelào
      In morendo, gittò; nel mezzo al colloTal colpo gli vibrò che ancor parlante,
      Mista alla polve rotolò la testa.
      ? 330 Ma Fèmio Terpìade, inclito vate, 425
      Che tra i Proci per forza il canto sciolse,
      L'atra Parca schivò. Tra man l'argutaCetra tenendo, appo l'occulta porta
      Stàvasi e due pensier volgea nell'alma:
      Od uscir del palagio ed all'altare 430
      Del grande Giove Ercèo sedersi, doveDa Laerte e dal figlio arse già fûro
      Molte cosce di tauri, ovver prostrato,
      Stringer orando le ginocchia a Ulisse.
      Pensa e ripensa, alfin miglior partito 435
      Gettarsi a' piedi dell'eroe gli parve.
      Tra un'urna e un seggio che splendeva adornoD'argentee borchie, l'incavata cetra
      Depose e corse e 'l supplicava: "Ulisse,
      Le ginocchia t'abbraccio, in me benigno, 440
      Abbi riguardo e vìncati pietade!
      A te ancora dorrà se un Vate uccidi,
      Che a' Numi canta ed a' mortali. Io fuiDi me stesso maestro unico, mille
      Tempre diverse d'armonia gioconda 445
      Mi seminò nell'intelletto un Dio.
      Dato m'è, qual tu fossi un de' Celesti,
      Celebrarti cantando. Or dunque, in coreReprimi 'l fier desìo di trucidarmi.
      Certo diratti il tuo figlio diletto, 450
      Telèmaco, che non di voler mio,
      Non mai da ingordo desiar sospintoVenni a cantar de' pretendenti al desco:


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Odissea
di Omero (Homerus)
pagine 437

   





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