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      risposero gli altri.
      I secondini mantennero la parola; in appresso usarono maggiori riguardi e trascuranza.
      Prese tutte queste precauzioni, la cui utilità vedrà in seguito il lettore, incominciai a segare un ferro. Le seghe erano eccellenti, ma onde non perdere tempo, conveniva lavorare con forza e lestezza. Dopo tre ore si facevano assai lente.
      Oltre a questo inconveniente, v'era l'altro di dover segare colle due mani insieme unite, giacché non avevo arco. Cosicché in breve mi trovai tutto tagliato.
      Me ne stava in piedi sulla spalliera, posizione penosissima, come può bene immaginarsi, collo stomaco mi appoggiavo al muricciolo della finestra, e facevo forza colle braccia e colle gambe nello stesso tempo per rimanere in equilibrio; ma molto di leggieri, particolarmente se discendeva in fretta al sopravvenire dei secondini, la spalliera si muoveva, e correva pericolo di trovarmi in terra di botto: fatto che mi accadde per due volte.
      Sul finire del primo ferro la sega mi si ruppe in due: non potevo ire innanzi senza arco. Allora misi a partito il mio cervello. Aggiustai due pezzetti di legno, e in mezzo posi la sega in maniera da lasciarne fuora per il lavoro poco più del diametro del ferro da tagliare. Sugli estremi delle due coste della sega ne applicai un pezzetto della rotta: quindi con cera e spago incominciai a fasciare il tutto con forza, e ne ebbi un eccellente manico.
      Dopo tre ore di lavoro, rompeva il pezzo della sega usata, e spingeva innanzi la nuova. Quasi ad ogni ora lasciavo il lavoro pel sopravvenire dei secondini, al cui avvicinarsi chiudeva in fretta il taglio col filo di cera già preparato, sbalzavo a terra e me la passeggiavo cantarellando.


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Memorie Politiche
di Felice Orsini
pagine 371