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      Il lasciar poi le ulive sugli alberi sino al principio della primavera è nocevole alla ventura produzione. Qualunque frutto finchè resta sull’albero ne trae nutrimento: ora se gli ulivi devono nutrire ancora i frutti dell’anno antecedente nella stagione in cui si dispongono già a preparare la nuova generazione, questa dev’essere imperfetta, essi non possono ben mignolare, per la ragione stessa per cui negli animali le madri che allattano ingravidano men facilmente delle altre.
      Per tali ragioni noi crediamo non esservi pratica più lodevole intorno a ciò di quella tenuta da quei pochi che in Sicilia coltivano con diligenza gli uliveti e studiano a trarre olio perfetto.
      Essi da settembre a dicembre impiegano ragazzi per raggranellare le ulive che cadono, e come in quella stagione i venti sono impetuosi e le ulive mature, alla fine di dicembre poche ne restano sugli alberi, le quali si fanno cadere da uomini che salgono o s’inerpicano sull’ulivo, o scoccolandole, o scotendo i rami, o picchiando con una canna su di quelli, cui non giunge la mano.
      Raccolte poi le ulive, per qua’ modi può ottenersene l’olio di ottima qualità? Il gran segreto intorno a ciò si riduce a due cose: 1. Non fare che le ulive soffrano alcun principio di fermentazione, onde nasce il rancido; 2. Usare la massima nettezza in tutto ciò che serve alla manifattura e conservazione dell’olio; onde esso non contragga (e facilissimamente può contraerlo) alcun cattivo odore.
      Si ripara al primo inconveniente con macinare le ulive senza conservarle a lungo, e molto meno ammonticchiarle.


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Calendario dello agricoltore siciliano
di Niccolò Palmeri
Tipogr. Pensante Palermo
1883 pagine 189

   





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