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      Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente, e che il vero pregare non è borbottare molte parole alla guisa de' pagani, ma adorar Dio con semplicità, sì in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre sieno l'adempimento del suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero quest'incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio.
      Le formole di preghiera da me recitate in adorazione furono sempre poche, non già per disprezzo (ché anzi le credo salutarissime, a chi più, a chi meno, per fermare l'attenzione nel culto), ma perché io mi sento così fatto, da non essere capace di recitarne molte senza vagare in distrazioni e porre l'idea del culto in obblio.
      L'intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch'egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: "Non sono io in ottima compagnia?" mi andava dicendo. E mi rasserenava, e canterellava, e zufolava con piacere e con tenerezza.
      Ebbene,
      pensai "non avrebbe potuto venirmi una febbre e portarmi in sepoltura? Tutti i miei cari, che si sarebbero abbandonati al pianto, perdendomi, avrebbero pure acquistato a poco a poco la forza di rassegnarsi alla mia mancanza. Invece d'una tomba, mi divorò una prigione: degg'io credere che Dio non li munisca d'egual forza?


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





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