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      Nulla mai mi costò tanta violenza.
      Egli si divise consolatissimo da me, ed io tornai nel mio carcere col cuore straziato. Appena mi vidi solo, sperai di potermi sollevare abbandonandomi al pianto. Questo sollievo mi mancò. Io scoppiava in singhiozzi, e non potea versare una lagrima. La disgrazia di non piangere è una delle più crudeli ne' sommi dolori, ed oh quante volte l'ho provata!
      Mi prese una febbre ardente con fortissimo mal di capo. Non inghiottii un cucchiaio di minestra in tutto il giorno. "Fosse questa una malattia mortale" diceva io "che abbreviasse i miei martirii!"
      Stolta e codarda brama! Iddio non l'esaudì, ed or ne lo ringrazio. E ne lo ringrazio, non solo perché dopo dieci anni di carcere ho riveduto la mia cara famiglia e posso dirmi felice; ma anche perché i patimenti aggiungono valore all'uomo, e voglio sperare che non sieno stati inutili per me.
     
      CAPO XV
     
      Due giorni appresso, mio padre tornò. Io aveva dormito bene la notte, ed era senza febbre. Mi ricomposi a disinvolte e liete maniere, e niuno dubitò di ciò che il mio cuore avesse sofferto e soffrisse ancora.
      Confidomi disse il padre "che fra pochi giorni sarai mandato a Torino. Già t'abbiamo apparecchiata la stanza, e t'aspettiamo con grande ansietà. I miei doveri d'impiego mi obbligano a ripartire. Procura, te ne prego, procura di raggiungermi presto."
      La sua tenera e melanconica amorevolezza mi squarciava l'anima. Il fingere mi pareva comandato da pietà, eppure io fingeva con una specie di rimorso. Non sarebbe stata cosa più degna di mio padre e di me, s'io gli avessi detto: "Probabilmente non ci vedremo più in questo mondo!


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





Torino