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      Mi giova tuttavia sperare che mentissero.
      Dopo più d'un mese di malattia, la poveretta fu condotta in campagna, e non la vidi più.
      È indicibile quant'io gemessi di questa perdita. Oh, come la mia solitudine divenne più orrenda! Oh come cento volte più amaro della sua lontananza erami il pensiero che quella buona creatura fosse infelice! Ella aveami tanto colla sua dolce compassione consolato nelle mie miserie; e la mia compassione era sterile per lei! Ma certo sarà stata persuasa ch'io la piangeva; ch'io avrei fatto non lievi sacrifizi per recarle, se fosse stato possibile, qualche conforto; ch'io non cesserei mai di benedirla e di far voti per la sua felicità!
      A' tempi della Zanze, le sue visite, benché pur sempre troppo brevi, rompendo amabilmente la monotonia del mio perpetuo meditare e studiare in silenzio, intessendo alle mie idee altre idee, eccitandomi qualche affetto soave, abbellivano veramente la mia avversità, e mi doppiavano la vita.
      Dopo, tornò la prigione ad essere per me una tomba. Fui per molti giorni oppresso di mestizia, a segno di non trovar più nemmeno alcun piacere nello scrivere. La mia mestizia era per altro tranquilla, in paragone delle smanie ch'io aveva per l'addietro provate. Voleva ciò dire ch'io fossi già più addimesticato coll'infortunio? più filosofo? più cristiano? ovvero solamente che quel soffocante calore della mia stanza valesse a prostrare persino le forze del mio dolore? Ah! non le forze del dolore! Mi sovviene ch'io lo sentiva potentemente nel fondo dell'anima, - e forse più potentemente, perché io non avea voglia d'espanderlo gridando e agitandomi.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





Zanze