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      Certo il lungo tirocinio m'avea già fatto più capace di patire nuove afflizioni, rassegnandomi alla volontà di Dio. Io m'era sì spesso detto, essere viltà il lagnarsi, che finalmente sapea contenere le lagnanze vicine a prorompere, e vergognava che pur fossero vicine a prorompere.
      L'esercizio di scrivere i miei pensieri avea contribuito a rinforzarmi l'animo, a disingannarmi delle vanità, a ridurre la più parte de' ragionamenti a queste conclusioni: "V'è un Dio: dunque infallibile giustizia: dunque tutto ciò che avviene è ordinato ad ottimo fine: dunque il patire dell'uomo sulla terra è pel bene dell'uomo".
      Anche la conoscenza della Zanze m'era stata benefica: m'avea raddolcito l'indole. Il suo soave applauso erami stato impulso a non ismentire per qualche mese il dovere ch'io sentiva incombere ad ogni uomo d'essere superiore alla fortuna, e quindi paziente. E qualche mese di costanza mi piegò alla rassegnazione.
      La Zanze mi vide due sole volte andare in collera. Una fu quella che già notai, pel cattivo caffè; l'altra fu nel caso seguente.
      Ogni due o tre settimane, m'era portata dal custode una lettera della mia famiglia; lettera passata prima per le mani della Commissione, e rigorosamente mutilata con cassature di nerissimo inchiostro. Un giorno accadde che, invece di cassarmi solo alcune frasi, tirarono l'orribile riga su tutta quanta la lettera, eccettuate le parole: "Carissimo Silvio" che stavano a principio, e il saluto ch'era in fine: "T'abbracciamo tutti di cuore".
      Fui così arrabbiato di ciò, che alla presenza della Zanze proruppi in urla, e maledissi non so chi.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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