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      Presa la penna, e messomi a scrivere, ciò che ne risultava era sempre una lettera piena di tenerezza e di dolore.
      Non son io più libero del mio volere?
      andava dicendo. "Questa necessità di fare ciò che non vorrei fare, è dessa uno stravolgimento del mio cervello? Ciò per l'addietro non m'accadeva. Sarebbe stata cosa spiegabile ne' primi tempi della mia detenzione; ma ora che sono maturato alla vita carceraria, ora che la fantasia dovrebbe essersi calmata su tutto, ora che mi son cotanto nutrito di riflessioni filosofiche e religiose, come divento io schiavo delle cieche brame del cuore, e pargoleggio così? Applichiamoci ad altro."
      Cercava allora di pregare, o d'opprimermi collo studio della lingua tedesca. Vano sforzo! Io m'accorgeva di tornar a scrivere un'altra lettera.
     
      CAPO XLV
     
      Simile stato era una vera malattia; non so se debba dire, una specie di sonnambulismo. Era senza dubbio effetto d'una grande stanchezza, operata dal pensare e dal vegliare.
      Andò più oltre. Le mie notti divennero costantemente insonni e per lo più febbrili. Indarno cessai di prendere caffè la sera; l'insonnia era la stessa.
      Ma pareva che in me fossero due uomini, uno che voleva sempre scriver lettere, e l'altro che voleva far altro. "Ebbene" diceva io "transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella lingua. "
      Quindi in poi scriveva tutto in un cattivo tedesco. Per tal modo almeno feci qualche progresso in quello studio.
      Il mattino, dopo lunga veglia, il cervello spossato cadeva in qualche sopore.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201