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      De' nostri compagni erano anche usciti, come innocenti, il professor Gian-Domenico Romagnosi, ed il conte Giovanni Arrivabene. Il capitano Rezia ed il signor Canova erano insieme. Il professor Ressi giacea moribondo, in un carcere vicino a quello di questi due.
      Di quelli che non sono uscitidiss'io "le condanne son dunque venute. E che s'aspetta a palesarcele? Forse che il povero Ressi muoia, o sia in grado d'udire la sentenza, non è vero?"
      Credo di sì.
      Tutti i giorni io dimandava dell'infelice.
      Ha perduto la parola; - l'ha riacquistata, ma vaneggia e non capisce; - dà pochi segni di vita; - sputa sovente sangue, e vaneggia ancora; - sta peggio; - sta meglio; - è in agonia.
      Tali risposte mi si diedero per più settimane. Finalmente una mattina mi si disse: "È morto!".
      Versai una lagrima per lui, e mi consolai pensando ch'egli aveva ignorata la sua condanna!
      Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l'inquisitore e i due giudici assistenti.
      Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l'Imperatore l'aveva mitigato.
      L'inquisitore mi lesse la sentenza: "Condannato a morte". Poi lesse il rescritto imperiale: "La pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg".
      Risposi: "Sia fatta là volontà di Dio!".
      E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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