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      Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all'uscio d'Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.
     
      CAPO LXIII
     
      Speravamo - e così infatti accadde - che parlando più piano ci potremmo sentire, e che talvolta capiterebbero sentinelle pietose, le quali fingerebbero di non accorgersi del nostro cicaleccio. A forza d'esperimenti, imparammo un modo d'emettere la voce tanto dimesso, che bastava alle nostre orecchie, ed o sfuggiva alle altrui, o si prestava ad essere dissimulato. Bensì avveniva a quando a quando che avessimo ascoltatori d'udito più fino, o che ci dimenticassimo d'essere discreti nella voce. Allora tornavano a toccarci urla, e picchiamenti agli usci, e, ciò ch'era peggio, la collera del povero Schiller e del soprintendente.
      A poco a poco perfezionammo tutte le cautele, cioè di parlare piuttosto in certi quarti d'ora che in altri, piuttosto quando v'erano le tali guardie che quando v'erano le tali altre, e sempre con voce moderatissima. Sia eccellenza della nostr'arte, sia in altrui un'abitudine di condiscendenza che s'andava formando, finimmo per potere ogni giorno conversare assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci.
      Ci legammo di tenera amicizia. Mi narrò la sua vita, gli narrai la mia; le angosce e consolazioni dell'uno divenivano angosce e consolazioni dell'altro.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





Oroboni Schiller