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      Stentava a strascinare la mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull'erba, e vi stava ordinariamente finché fosse finita la mia ora.
      Stavano in piedi o sedeano vicino a me le guardie, e ciarlavamo. Una d'esse, per nome Kral, era un boemo, che, sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se l'era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con forte discernimento su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea cognizione di Klopstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller e di molti altri buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un'infinità di brani a memoria, e li dicea con intelligenza e con sentimento. L'altra guardia era un polacco, per nome Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia mi era assai cara.
     
      CAPO LXVI
     
      Ad un'estremità di quel terrapieno, erano le stanze del soprintendente; all'altra estremità alloggiava un caporale con moglie ed un figliuolino. Quand'io vedeva alcuno uscire di quelle abitazioni, io m'alzava e m'avvicinava alla persona, o alle persone, che ivi comparivano, ed era colmato di dimostrazioni di cortesia e di pietà.
      La moglie del soprintendente era ammalata da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapé all'aria aperta. È indicibile quanto si commovesse esprimendomi la compassione che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e quantunque timido, s'attaccava di quando in quando con intensa interrogante fiducia allo sguardo di chi le parlava.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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