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      Ella erasi invaghita di Maroncelli.
      Già prima che fosse posto con me, esso e la donna, vedendosi ivi quasi ogni giorno, aveano fatto un poco d'amicizia. Egli era anima sì onesta, sì dignitosa, sì semplice nelle sue viste, che ignorava affatto d'avere innamorato la pietosa creatura. Ne lo feci accorto io. Esitò di prestarmi fede, e nel dubbio solo che avessi ragione, impose a se stesso di mostrarsi più freddo con essa. La maggior riserva di lui, invece di spegnere l'amore della donna, pareva aumentarlo.
      Siccome la finestra della stanza di lei era alta appena un braccio dal suolo del terrapieno, ella balzava dal nostro lato per l'apparente motivo di stendere al sole qualche pannolino o fare alcun'altra faccenduola, e stava lì a guardarci; e se poteva, attaccava discorso.
      Le povere nostre guardie, sempre stanche di aver poco o niente dormito la notte, coglievano volentieri l'occasione d'essere in quell'angolo, dove, senz'essere vedute da' superiori, poteano sedere sull'erba e sonnecchiare. Maroncelli era allora in un grande imbarazzo, tanto appariva l'amore di quella sciagurata. Maggiore era l'imbarazzo mio. Nondimeno simili scene, che sarebbero state assai risibili se la donna ci avesse ispirato poco rispetto, erano per noi serie, e potrei dire patetiche. L'infelice ungherese aveva una di quelle fisionomie, le quali annunciano indubitabilmente l'abitudine della virtù ed il bisogno di stima. Non era bella, ma dotata di tale espressione di gentilezza, che i contorni alquanto irregolari del suo volto sembravano abbellirsi ad ogni sorriso, ad ogni moto de' muscoli.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





Maroncelli