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      Che furono per sempre al ciel conversi.
     
      Talora a quel delubro io discendeaDubbio su tutto, e quasi su Dio stesso,
      E lung'ora solingo ivi gemeaDa sciagurate passioni ossesso,
      Poi vedea mover giù dalla scalèaIl poverel da' suoi malori oppresso,
      Ch'appo il corpo del Santo s'inchinava,
      E di lui la beata alma pregava.
     
      La fè del poverello io con dolcezzaInvidiando, era commosso al pianto,
      E vergognava della ria stoltezzaChe sovente di senno usurpa il manto;
      E allor tutta splendeami la bellezzaDel culto ch'elevar può l'uom cotanto;
      E Carlo io pur pregava, e in me largitaTosto sentìa di maggior fede aita.
     
      Sempre onorai quel forte: ad onoranzaM'astringon que' magnanimi mortali,
      Ch'osano concepir l'alta speranzaDi sveller d'infra il mondo orrendi mali;
      Ch'osan, non per vendetta od arroganzaContro a poter di soverchianti eguali,
      Ma di Dio per amore e delle gentiConfonder dell'iniquo i rei contenti.
     
      Di Carlo a' tempi, vïolenza e orgoglioSpesso ne' sommi e oscenità regnava,
      E de' vili costumi il turpe loglioIndi più nella plebe pullulava;
      Innocenza per tema e per cordoglioDa ogni parte ascondeasi e palpitava,
      E se la raggiungea braccio nefando,
      Irrugginito era di legge il brando.
     
      E perchè inetta era la legge ultrice,
      L'uomo spogliato del paterno avere,
      E il padre della vergine infeliceChe a lui rapita avea truce potere,
      Fean la propria lor destra esecutriceDi cieche stragi e di perfidie nere,
      E in mezzo al sangue gli uomini cresciutiL'ire feroci esser credean virtuti.
     
      E per maggior calamità d'alloraPremeano Italia immiti ferri estrani,


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Poesie inedite
di Silvio Pellico
Tipografia Chirio e Mina Torino
1837 pagine 291

   





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