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      Il paesaggio non cangiava mai; gli accidenti non diminuivano. La nostra stanchezza era estrema. Una notte di riposo ci sembrò indispensabile. Da sessantasei ore non avevamo preso nulla di caldo.
      Facemmo alto a pie d'un poggio, che ci offriva uno scavato fra due massi. Distaccammo l'orso dalla slitta, ma non gli demmo la libertà. Mentre io innalzava il pologhe e Metek tagliava le legna pel fuoco, Cesara dalla slitta teneva la correggia dell'orso, al quale io aveva presentato amichevolmente un pezzo enorme delle nostre renne. L'orso parve riconoscentissimo di questa gentilezza previdente, e mangiò il suo pasto pulitamente, senza premura, senza dare alcun segno di ghiottoneria. Si accostumava esso alla sua sorte? Cesara lo carezzò.
      - Ma! e' si lascerebbe baciare, senza far troppo lo schifiltoso, se glielo proponessi, disse ella. Non è vero, ninì?
      Il fuoco scintillava. Io sollevai il lembo che serviva di porta al pologhe. L'orso, solidamente legato ad un corno della roccia, allungò il capo, e parve incantato del fuoco che ci affumicava come prosciutti. Cenammo con una parte dell'anca dell'alce, messa sulle brace, che restavaci ancora. L'orso non volle gustare di carne cotta, ma rotolò fra le sue zampe enormi l'enorme osso scarnato, divertendosene come di un trastullo. Poi fe' scricchiolar sotto i denti con diletto un biscotto. Noi bevemmo del thè; e' si contentò fiutarlo con curiosità. L'aspetto di Cesara, messo a nudo, fece brillare i suoi occhi d'un insolito scintillio, malgrado ciò dolce e tenero.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





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