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      Imperciocchè, per fermo, ciò non poteva indirizzarsi a me, che non comprendevo verbo di albanese, e meno ancora a Demetrio il quale traversava un'estasi eterna.
      La vita di questo bel giovane, silenzioso e tristo, era una memoria - l'amore per Aspasia che aveva lasciata a Lungro.
      Finito il pasto - e che pasto! io non ne feci mai di migliori, nè alle tavole diplomatiche, nè a quelle dei cardinali, neppure a quella di Sua Eminenza Tosti, neppure alla tavola tua, mio caro Dumas, che eri il Shakespeare della cucina. - Il pranzo terminato, ci rimettemmo in via. Il sole era implacabile. Non un sospiro di brezza, non una nuvola in un cielo che sembrava un soffitto dipinto d'inesorabile oltremare. La terra di queste vigne dai grappoli di oro, di questi campi di gran turco, frastagliati di siepi alle quali delle belle more selvagge formavano un monile nuziale, questa terra biancastra era screpolata. Su tutta la vegetazione stendevasi un oeil de poudre. Si respirava un soffio che rassomigliava ad una fiamma. E noi andavamo sempre, evitando i borghi, le case, l'uomo. Verso la sera però il viaggio divenne delizioso. Il caldo era diminuito. Il sole si coricava nel mare, a perdita di occhio spaziato dinanzi a noi. Ci avvicinavamo a Belvedere, ove io dirigevo i miei passi.
      Ad un certo luogo ci fermammo. Bisognava anzi tutto aspettare che la luna si levasse; perocchè, se egli era mestieri di non esser visti, lo era per lo meno altrettanto di vedere. Bisognava lasciar rientrare nel borgo le pattuglie realiste, che nel giorno davano per la campagna la caccia ai liberali, e lasciar coricar la gente.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





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