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      Rimanemmo cinque o sei mesi nelle camere più comode di cui ho parlato e credevamo di rimanerci sempre perché nell'ultima visita della Congregazione, a Natale, non ce ne avevano fatto uscire benché le camere vecchie fossero racconciate. Ci confermava poi sempre più in questa idea l'avere avuto uno di noi per carcere, in quel tempo, tutto il palazzo del Sant'Uffizio; grazia che dava a tutti una granze speranza di piena libertà. Ma accadde tutto al rovescio.
      Io tuttavia non mancai di provvedere tutto quello che credetti necessario per riuscire nel mio primo progetto, nel caso che la disgrazia mi costringesse a riprenderlo. Continuai sempre a fare lavori di paglia, a miniare, a disegnare a penna ed insegnai, a molti che me ne pregarono, il mio sistema del punto indiano. Così cercavo di togliermi dalla noia meglio che potessi. La fortuna volle che tutte le piccole cose che allora serbai mi diventassero utilissime in seguito, ed accadde, anche per fortuna, che un prigioniero desiderò che gli incidessi in cavo, nella pasta, una conchiglia da pellegrino di San Giacomo, per fare uno stampo di gesso da formare tabacchiere di carta pesta. Mi diede perciò molta creta che in seguito mi servì molto.
      Avendo qualche agio di parlare coi prigionieri dalla finestra, tenni, un giorno, un discorso assai lungo con Don Francesco Paget, prete francese che dicevano pieno di scienza e che parlava perfettamente sei lingue. Mi guardò e mi disse che dalle linee della mia fronte giudicava ch'io non dovevo rimanere molto tempo in prigione e che, se tentavo di uscirne, tutto mi sarebbe riuscito a bene.


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Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri dell'Inquisizione di Roma
di Giuseppe Pignata
pagine 170

   





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