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      L'impresa ci parve a tutta prima assai difficile. Alfonsi mi disse che quelle mura dovevano esser di diamante poiché né le forbici né il chiodo le potevano intaccare. Allora gli dissi di scendere poiché tornava più il conto lavorare di notte con più comodo e meno paura. Rimettemmo a posto i letti e le tavole e quando vidi che l'ora dell'ultima visita de' carcerieri s'avvicinava, nascosi, secondo il solito, il lume nella mia lanterna e mezzo spogliati dicevamo le nostre preghiere. I carcerieri entrarono e trovandoci a quel modo, non badarono troppo a noi, visitarono distrattamente le camere, le porte e le finestre e, dandoci la buona notte se ne andarono.
      Un'ora dopo, quando tutto era silenzio, rimettemmo in piedi il nostro catafalco, ricoprendolo e circondandolo di materasse e di coperte perché i rottami di calce e di mattoni non facessero rumore cadendo. Io salii in alto e col ferro del brachiere cominciai a tentare la volta in diversi luoghi. Non trovai di meglio, per forare il buco, che il punto dove la volta si univa al muro che divideva le nostre due camere, appunto a metà della lunghezza del muro e precisamente sopra il capo del letto del mio compagno, il qual letto a questo modo si trovava già pronto per ricevere sopra il resto del nostro edificio. Fortuna volle che in quel luogo trovassi un vuoto, in causa del lavoro fatto poco prima, quando furono racconciate le fondamenta, poiché era stata messa una chiave di ferro forte e lunga per afforzare il grosso muro che dava sulla strada, dirimpetto alla facciata di San Pietro.


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Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri dell'Inquisizione di Roma
di Giuseppe Pignata
pagine 170

   





San Pietro