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      Per dugento cinquanta lunghi giorni, quanti ne scorsero sino alla fine del processo, alleviò il tempo e la noia suonando una spinetta, e traducendo in versi le litanie della Madonna, che poi metteva in musica: ma ciò, se gli distraeva la mente, non lo avvicinava di un piccol passo alla liberazione. Saputo però che ad alcuni prigionieri era concesso di far lavoretti in paglia e cartone, come bauletti, tabacchiere e simili cose, e prevedendo che ciò gli avrebbe procurato qualche strumento utile al suo fine, forbici, cioè, coltellini e filo, chiese anch'egli tal grazia: e da un custode, che voleva gli facesse il ritratto dell'amata sua, ebbe intanto carta, lapis e penne, e, quello che più agognava, un temperino.
      Si pronunziava finalmente, dopo sì lungo tempo, la sentenza; ed il Pignata era condannato, come dicemmo, a perpetua prigione, con possibilità tuttavia di una grazia a lontana scadenza, forse dopo una ventina d'anni. Ciò lo confermava sempre più nell'idea di tentare la fuga. Il permesso di lavorare in paglia e cartone venne dopo altri sei mesi, e con esso un piccolo paio di forbici. Piaciuti gli oggetti ch'ei lavorava, chiese e poté avere colori e gesso; utile quest'ultimo, non solo a incollare carta, ma a tappar buchi. La vita del condannato divenne men aspra: e con la solita astuzia dei carcerati cominciò anche a tener corrispondenze con un suo antico compagno di studi, ed ora di imputazione e di sventura, di nome Gian Filippo Alfonsi. Era questi uomo di lettere, e di lui si ha a stampa un poemetto sacro intitolato Santa Eufrosina, stampato a Roma nel 1702, ma senza nome di autore, da Gaetano Zenobi.


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Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri dell'Inquisizione di Roma
di Giuseppe Pignata
pagine 170

   





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