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      Intanto ho creduto che questa tirata fosse molto opportuna, e ora è fatta, e mi sembra un debito saldato. Se avrò vita ne salderò alcuni altri.
      Ma io sono qui per lodare il mio libro, che è lo scopo delle prefazioni, e comincio dal biasimare i libri altrui. Che volete? quasi tutti gli autori fanno così: solamente ci mettono minore sincerità, e furberia maggiore. È come quando si ricorre ad un impiego: che, se non sulla carta, almeno all’orecchio delle persone influenti, o per un verso o per l’altro, c’ingegniamo a far capire che tutti i competitori sono asini o birboni, e che nessuno di loro è adattato per quel posto, e che noi soli siamo degni di mangiare quel salario. A ogni modo, la vera prefazione incomincia adesso, e il già scritto, se non vi piace, laceratelo pur via qual ciarla inconcludente.
      Come sia nato in me il pensiero di questo libro non saprei dirlo in coscienza, perchè non me ne ricordo più. Era in parte già fatto assai prima dei trambusti che fecero dimenticare tante inutili cose. Ora, da alcuni mesi ripigliai la penna, e di mano in mano che l’argomento mi dettava pagine una più matta dell’altra, il cuore mi diceva con forza sempre crescente, che io mi allontanava troppo dalle esigenze dei tempi, e che adesso il publico non si mena più a spasso con delle parole (che sciocco d’un cuore!), e che la gente non ha più voglia di ridere. E io gli rispondeva: «Taci, bestia, che i muscoli del riso non sono scomparsi dalle faccie degli uomini, e siccome gli uomini usano delle loro facoltà finchè possono, così in questo mondo si riderà sempre, per quanto gli affari vadano alla peggio: e meno c’è da ridere sulle cose grandi, più si ha bisogno di rivolgersi alle cose piccole per occuparsene piacevolmente, e assopire, almeno per intervalli, il dolore dei fiaschi grossi.


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L'arte di convitare spiegata al popolo
di Giovanni Rajberti
Editore Bertieri Milano
1937 pagine 212