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      Che bel progresso sarebbe questo di non designare più le pietanze col loro nome prosaico!
      M’imagino di udire un dialogo fra due amici che partano da un desinare cattivo. «S’è pur mangiato da cani, veh! — Si capiva fin da principio che la doveva andar male: che broda lunga era quel Passeroni! — E il Dante poteva essere più duro e indigesto? l’ho ancora sullo stomaco che non mi vuol passare. — Sai perchè? ritengo di certo che non fosse Dante, ma Beatrice. — Mi sentii tutto a consolare quando capitò in tavola il Metastasio: ma anche lui è riescito troppo molle e dolciastro», ecc. Di questa nuova e istruttiva nomenclatura ne parleremo forse altra volta. Ora ritorniamo al nostro discorso.
     
      Non crediate però che s’abbiano ad ammirare soltanto i desinari illustri, dietro il confronto che ho istituito fra le mense dei grandi e quelle del popolo. L’antitesi sarà riescita utile coll’additarvi molte pecche da schivare, e sopratutto col dimostrarvi che bisogna desistere da gare per le quali voglionsi e consumata pratica, e gusto raffinatissimo, e grandi mezzi, e artefici famosi. Del resto, l’uomo deve essere enciclopedico e sapere apprezzare il bello e il buono dovunque si trovi: e ai pranzi popolari, quando sieno ben regolati, se ne trova assai. Dai grandi si mangia meglio; ma tra di noi si mangia più allegramente. Là si renderebbe ridicolo chi lodasse una vivanda; quì è permesso lo sfogo di tutte le esclamazioni per un piatto che ci vada a sangue. Là si parla sommessamente, rimessamente, come se avessimo la sordina alla voce; quì si grida, si schiamazza e si sghignazza per ogni mosca che voli.


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L'arte di convitare spiegata al popolo
di Giovanni Rajberti
Editore Bertieri Milano
1937 pagine 212

   





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