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      E dentro certi limiti essa è ben legittima, in quanto è un portato inevitabile della mente umana. Il guaio si è che si trascorre facilmente all’abuso; e più ci si trascorre nei periodi di decadenza. Per tal modo nell’antichità, mano mano che scadeva o si pervertiva la virtù intellettuale, maggiore diventava la smania dei sensi profondi e reconditi. Questa tendenza si manifestò in due maniere: colla produzione d’opere [172] nuove, e coll’interpretazione delle esistenti. Si composero libri dove nulla s’aveva a prendere in senso proprio; gli attori erano mere personificazioni di idee; l’azione, un vero filosofico. Ma ancora, pazienza; il peggio si fu che si pretese di scoprire gli stessi intendimenti riposti in opere dove gli autori non avevano proprio pensato ad allegorizzare. Così l’Eneide, le Metamorfosi, per non parlar della Bibbia, furono convertite in scatole a doppio fondo, nelle quali, naturalmente, ciò che importava di vedere era quello appunto che nessuno vedeva.
      Su questa via si tirò innanzi per tutta l’età di mezzo: con maggior accanimento che mai nel secolo XIII e nel XIV. E allora la Francia ebbe, oltre ad un’infinità di opere minori, il Roman de la Rose; l’Italia - a fianco a questo non oserei pronunziare altro titolo - la Divina Commedia. Poi, col rifiorire del classicismo e col graduale abbandono della scolastica, questa tendenza viziosa andò decrescendo. Il quattrocento italiano non usò in generale dell’allegoria più di quanto concedessero le leggi del buon gusto.


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Le fonti dell'Orlando Furioso
di Pio Rajna
pagine 965

   





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