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      Alla Douloureuse Garde il Bon Chevalier non ha propriamente condotto a fine l’avventura: il solo Lancilotto potrà; ma se n’è partito salvo, dopo aver recato al castello un danno ben grave, e fattovi tanto d’arme, quanto nessuno mai fino a quel giorno (Palam., f.o 124).
      Ruggiero, non meno prode di tutti costoro, vince, senza sua colpa, con molto minor fatica: però arrossisce della vittoria (st. 90). Sfogherà nobilmente il dispetto, gettando nel fondo di un pozzo il malaugurato arnese (st. 91-93). Conducendosi in tal modo, segue l’esempio di Tristano. Il quale, avute da un cotal Lasancis, ch’egli ha vinto, tutte le sue armi affatate, le mette a squagliare in una fornace, dicendo: «Qual è quello cavaliere che si diletti d’esser tenuto d’avere in sé prodezza, sia pro’ nella opera e abbi ardito il cuore, e sia forte di [363] membra, savio e ingegnoso nello combattere; e non affalsi sue prodezze con incantate armadure.»(1401) E ancor più prossimo d’assai ci starebbe, se non fosse la fonte, il Daniel dello Stricker, che, impadronitosi della testa incantata, riflesso di quella di Medusa, mortale per chi la guardi, la getta in un lago, trovando un’arme siffatta indegna d’un cavaliere.(1402) Evidentemente s’era ispirato a sentimenti analoghi anche Orlando, quando aveva sepolto in mare l’archibugio (IX, 90). Ivi, anzi, non essendoci di mezzo incanti di sorta, possiam dire di avere una manifestazione più genuina del pensiero del nostro poeta. Sicché quell’atto concorre colla distruzione dello scudo a dimostrare, quanto di sentimenti cavallereschi ci fosse nell’animo dell’Ariosto.


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Le fonti dell'Orlando Furioso
di Pio Rajna
pagine 965

   





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