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      La gente del Malabare, uomini di piú debile complessione, cominciorno a morire a visibile sete; alcuni, aggiungendo male a male, si saziavano con acqua salata; molti anche con disperazione si lanciavano in queste isole disabitate; altri per la sete incomportabile accecavano, senza mai tornare nell'essere di prima; alcuni altri morivano come cani rabbiosi.
      Andando in questa disperazione ci sopravenne maggior pericolo, perché, lasciando il vero cammino, il quale era lungo la terra, una notte ci allargammo al mare per piú sicura navigazione, e venuto il giorno ci trovammo circuiti d'infinit'isole e scogli e bassi, e tanti ch'era impossibile il contarli: e non potendo tornare indrieto, per il vento che ci sforzava d'andare avanti, né sapendo il cammino per onde fusse, mancando l'acqua quasi del tutto, dubitammo grandemente della nostra salvazione. Quest'isole ci detennono molti giorni, non potendo di notte navigare, perch'era necessario che il battello andasse avanti alla nave per discoprir fondo donde potesse passare, e talora surgemmo tre o quattro volte per giorno, con grandissima fatica di tutti e passione d'animo in dar le vele e ordinare la nave, non potendo i marinari supplire a tutto.
      Cosí, navigando sempre col piombo in mano, fummo con tanto riguardo che venimmo a cert'isole maggiori, dove il mar era piú largo, e in esse avemmo vista di certi navili che venivano di Dalaccia a pescar perle, i quali ne dettero grandissima speranza che Dalaccia saria vicina, stando noi quasi nella sua latitudine, che sono XVI gradi.


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Navigazioni e Viaggi
Volume Secondo
di Giovanni Battista Ramusio
pagine 1307

   





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