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      Pigliano il fusto di detta pianta per seminarla, e partonla in pezzi grandi duoi palmi, e alcuni uomini fanno monticelli di terra per ordine a filo, egualmente lontani l'uno dall'altro, come in questo regno di Toledo piantano le viti a compasso, e in ogni monticello mettono o cinque o sei o piú pezzi di questa pianta; altri non curano di far monticelli, ma nella terra piana lasciando eguali spazii ficcano questi piantoni. Ma prima hanno tagliato e arso in bosco per seminar la detta iuca, come si disse nel capitolo del maiz scritto avanti a questo; e de lí a pochi dí nasce, perché subito germuglia, e sí come va crescendo la iuca, cosí vanno nettando il terreno dall'erba, fin che detta pianta signoreggi l'erba, e questa non ha pericolo d'uccelli, ma di porci, se non è di quella che ammazza.
      Questo dico perché se ne trova una sorte venenosa, la quale loro non ardiscono mangiare, perché mangiandola creperebbono. Dell'altra che non ammazza bisogna averne cura, perché il frutto di questa nasce nelle radici della detta pianta, intra le quali nascono certe mazocchie, come carotte grosse e molto piú grandi communemente, le quali hanno la scorza aspra, di colore come leonato o bigio: dentro sono molto bianche, e per far pane di quello che chiamano cazabi la grattano, e dipoi quella ch'hanno grattata struccolano in uno cibucan, ch'è un instrumento come un sacco, di dieci palmi o piú longo e grosso come la gamba, che gl'Indiani fanno di palma, come stuora tessuta, e con quel detto cibucan cioè sacco torcendolo assai, come si costuma a fare quando delle mandole si vuol cavare il latte; e quel succo che si cava di questa iuca è mortifero e potentissimo veneno, perché un fiato di quello preso subito ammazza, ma quello che resta, dapoi cavato il detto sugo o acqua della iuca, che resta come una semola trita, lo pigliano e mettonlo al fuoco in un tegame di terra, cioè intian, della grandezza che vogliono fare il pane, molto ben calda, e la mettono distesa, tenera e premuta molto bene, di modo che non vi sia succo alcuno, la qual subito si congela e fassi una torta, della grossezza che vogliono fare e della grandezza del detto tegame nel qual cuocono; e come è congelata la cavano e l'acconciano, ponendola alcune volte al sole, e dipoi la mangiano: ed è buon pane.


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Navigazioni e Viaggi
Volume Quinto
di Giovanni Battista Ramusio
pagine 1260

   





Toledo Indiani