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      Combattemmo insino a notte, e stanchi ritornammo alla fortezza.
      Considerato il grandissimo danno fattoci da' nemici, e che essi stando in luogo sicuro ne ferivano e uccidevano, e il danno che noi facevamo loro non si vedeva, essendo la moltitudine infinita, quella notte e il giorno seguente consumammo in fabricar tre macchine di legno, in ciascuna delle quali potevano star dentro venti soldati, che non potevano esser offesi da' sassi che gli Indiani gettavano dalle terrazze. E di quegli che vi erano dentro alcuni portavano schioppi o balestre, e altri martelli aguzzi di ferro e vanghe e zappe, per cavare e rompere le case e guastar li ripari che avevano fatti per le contrade. Quando noi attendevamo diligentemente a far le macchine, gli nemici però non mancavano di combatterci, di maniera che, mentre noi non uscivamo della fortezza, essi facevano ogni sforzo d'entrarvi: a' quali, accioché non vi entrassero, con grandissima difficoltà e fatica potevamo resistere. Ma il detto Montezuma, il quale sempre insieme col figliuolo e con molti baroni ritenuti da principio era dimorato appresso di noi, disse che lo conducessimo nella terrazza della fortezza, che aveva deliberato di parlare ai capitani di quel popolo, e sperava di fare che si rimarriano da tale assedio. Comandai che fusse cavato fuori, e, affacciatosi ad una volta per parlar con loro di quivi, i suoi gli percossero la testa con un sasso, e gli fecero sí crudel ferita che per spazio di tre giorni se ne morí. Comandai a due Indiani ch'io teneva prigioni che lo cavassero fuori della fortezza: essi lo portarono al popolo, nondimeno quel che avenisse non lo so; ma per questo non cessò il combattimento, anzi ogni giorno s'accresceva e diventava piú gagliardo e maggiore.


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Navigazioni e Viaggi
Volume Sesto
di Giovanni Battista Ramusio
pagine 1486

   





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