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      Leale quanto prode, egli, postergando gli affetti domestici a quelli della nazione, pose a rischio sè e la sua stirpe nei cimenti della guerra e della politica; e a togliere ogni mal sospetto, trasferì da Torino a Firenze quel soglio che sarà un dì stabilmente piantato sulla vetta Capitolina.
      Nella piazza di Santa Croce Ei non apparve sabaudo o piemontese, ma sovranamente italiano. Egli avea lasciato la reggia de' suoi avi, le tombe de' suoi maggiori e i luoghi a lui più cari perchè consacrati da rimembranze gloriose di famiglia; avea lasciato l'augusta Torino, la città che il vide nascere e che fu esempio maraviglioso di fede e di valore verso di lui e della paterna monarchia: «la città, diciamo collo stesso Re, che seppe custodire i destini d'Italia nella rinascente sua fortuna».
      Le città italiane accese di tali sensi plaudirono al Monarca guerriero che mise in atto la unità politica tanto augurata dall'Alighieri, e si strinsero fraternamente le destre dove un tempo arsero le discordie municipali.
      I nostri poeti furono invitati a celebrare sull'Arno la insolita festa: ed io al cortese invito che l'onorevole Gonfaloniere conte Cambray-Digny m'inviò nella R. Università di Cagliari, stimai debito cittadino recarmi a Firenze e recitare un canto nell'Accademia letteraria ivi tenuta il 17 di maggio.
      Con animo riconoscente ricordo in quella congiuntura i plausi di Firenze a me poeta subalpino. E siccome in essi interpretai, più che altro, uno schietto saluto della Toscana al Piemonte, volentieri compio le pagine consacrate alla Dora, ripetendo il cantico intonato sulle rive dell'Arno.


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La Dora
Canti e prose
di Giuseppe Regaldi
Tipogr. Sebastiano Franco Torino
1864 pagine 263

   





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