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      Se il filosofo Pitagora si sentiva deliziato al picchiar di un martello sopra l’incudine, da qual maggior estasi non sarebbe stato rapito, se avesse conosciuto un simile istrumento, il quale mediante alcuni suoni rimbombanti ed armonici fa nascere un sentimento solo in un istante stesso in mille cuori, e a distanze grandissime?
      Passiamo ora all’arte vetraria, che ognuno sa quanto esclusivamente appartenga alla nostra città. Non si negherà, che una volta i Greci e gli Arabi la trattassero con sommo successo, meritando le loro opere di essere presentate in dono agli stessi monarchi. Ma da che l’Oriente decadde dal suo lustro, ed alla Greca coltura sottentrò la barbarie, egli è certo, che altro miglior rifugio non trovò quest’arte, quanto il tranquillo seno di queste acque. Poco propizia potea parere la natura del sito, giacchè se Tiro abbondava di quella sabbia, che può sola dar la trasparenza alla materia vitrea, Venezia al contrario n’era priva affatto. Ma a che non giunge lo studio e l’ingegno? Fu per loro mezzo che si ottenne una composizione di cenere, che nell’effetto eguagliò ed anche sorpassò quella di Tiro. Le fornaci de’ vetri erano qua e là sparse per la città. Sulla fine del secolo XIII vennero con decreto provvidamente ristrette nell’isola suburbana di Murano; e a tal Decreto è debitore quel luogo della celebrità del suo nome. Non v’ha in fatti forastiero, che di qua parta senza avergli prima renduto il debito omaggio, e senza avere ammirato l’infinito numero di lampane di capricciosa e varia simmetria, le graziose girandole tagliate a faccette, che disputano in pregio di lucidezza co’ brillanti, e tanti fiori e frutti colorati, così imitanti la varietà, che l’occhio ne potrebbe rimanere ingannato, se la bocca ed il naso non ne cercassero in vano il sapore e l’olezzo.


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Origine delle feste veneziane
(6 volumi)
di Giustina Renier Michiel
Tipografia Lampato Milano
1829 pagine 712

   





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