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      Giusto è però concedergli le circostanze attenuanti: ché a principiar da quella estate si verificò un vero diluvio di pubblicazioni, nelle quali ogni capoccia vero o preteso d'insurrezioni, ogni caporalaccio di truppe, ognuno insomma che nel biennio non avesse assolutamente tenuto le mani incrociate sul petto, magnificava quel che aveva fatto e veduto e detto e profetato, ciascuno sentenziando che se si fosse dato retta a lui l'Italia una sarebbe stata a quell'ora un fatto compiuto e assestato.
      Meridionale, colonnello a trent'anni, come poteva Pisacane, imperversando l'epidemia, salvarsi dal contagio?
      Il suo contegno, d'altronde, era anche determinato da necessità di legittima difesa. Se egli non perdonava agli avventurieri della guerra (tipo Garibaldi) e ai pedanti militari di vecchio stile (tipo Roselli), questi due, e altri molti, non la perdonavano a lui, che nel disimpegno dei suoi uffici romani aveva con la sua rigidezza, s'è visto, irritato e superiori e inferiori. Ripicchi che si rinnovano sempre all'indomani di un grande insuccesso: schiuma residua della mareggiata.
      Un passo di una lunga lettera diretta nell'autunno del '50 da Enrichetta a Pisacane illumina vivamente questo stato di cose: «L'altra sera passeggiando» — cosí ella scriveva — «ebbi una lunga discussione col Boldoni» (l'antico compagno della Nunziatella, poi tra i difensori di Venezia), «il quale diceva che tutti quei che erano stati a Roma non avevano data alcuna prova di abilità; che il solo Garibaldi era comparso e si era fatto amare e che aveva un partito fortissimo in Italia.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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