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      Ma non alzava mai dunque i suoi limpidi occhi dai fogli, il general Pisacane? Non lo colpivano i ceffi dei suoi seguaci? Ladri e ricettatori, lenoni, barattieri... Qual nuova insania poteva travestirli in militi iniziatori della indipendenza italiana? Come poteva egli seriamente incitarli a «battersi con le truppe di Ferdinando per riscattare la libertà», a battersi «con coraggio e bravura»?(333) Con venti giovinotti di cuore egli era riuscito, sí, d'impadronirsi di Ponza; ma ora, con quei trecento lazzaroni, che andava a fare nel regno di Napoli? Non gli sovveniva la dichiarazione dei suoi compagni di Genova, quella del 12 giugno: «Forse si farà credere essere noi masnadieri o pirati scesi al saccheggio»? O quel che egli stesso, nel quieto tempo di Albaro, aveva scritto intorno al reclutamento degli eserciti: «l'ammettere nelle (loro) file quelle classi di persone, che alla miseria estrema aggiungono pessimi costumi... rende l'esercito terrore ai cittadini. In Napoli si è toccato l'estremo confine dell'avvilimento; l'esercito viene ingrossato dei condannati alla galera»?
      È vero che a Ponza, in tanto tumulto, con una folla frenetica addensata sulla banchina, invocante l'imbarco sul Cagliari, non era stato possibile far distinzioni troppo sottili fra politici e non politici: due terzi dei delinquenti comuni amano sempre atteggiarsi a vittime di persecuzione politica; come dunque controllare l'identità di ciascuno, poi che era andato distrutto l'archivio di polizia? Era pur logico, d'altronde, che lí per lí si decidesse a quella che pareva la condizione fondamentale per la buona riuscita della spedizione: armare quanta piú gente fosse possibile per assicurare almeno i primi passi della marcia insurrezionale.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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