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      «Nessuno potrebbe sostenere con fondamento - scriveva - che trenta o quarant'anni fa essi vivessero piú agiatamente che oggi», ma, in allora, né i proletari «né altri pensavano che gente della loro condizione potesse star meglio. Quindi non facevano sentire alcun lamento... Insomma, trenta o quaranta anni addietro, mancava alle plebi rurali la chiara consapevolezza della loro inferiorità economica; e, nel loro silenzio, era lecito supporre che non stessero male». «Quel po' di miglioramento verificatosi a vantaggio della popolazione rurale sarebbe stato apprezzato e accettato con gioia da lui [dal contadino], se il suo stato psicologico non avesse subito modificazioni. Senonché sarebbe assurdo supporre che di questa trasformazione politica della nazione italiana... non dovesse naturalmente sentirne il contraccolpo anche il popolo rurale». E ancora: «Si può quindi concludere essere indiscutibile che il popolo delle campagne stia ora peggio che per lo passato, non perché sieno effettivamente peggiorate le condizioni, ma perché trenta o quarant'anni fa non agognava ad alcun cambiamento, mentre oggi invece, sotto forme vaghe e indeterminate, aspira ad un mutamento consentaneo alla profonda trasformazione politica avvenuta in Italia»(10).
      Al tempo in cui Jacini scriveva, due fatti cominciavano a scuotere l'apatia del contadino e a fargli intravedere un avvenire migliore: nell'Italia settentrionale l'industrialismo, che attirava molti agricoltori verso i piú alti salari della città e determinava perciò un rialzo nelle mercedi anche nelle campagne; nell'Italia settentrionale e meridionale, l'emigrazione.


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Mazzini e Bakunin
di Nello Rosselli
pagine 458

   





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