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      Si sarebbero scatenate le ambizioni, le piccole ire, le suscettibilità, le polemichette, tra la meschina rigidità dei discepoli ortodossi, e l'irruenza irriflessiva di quelli che intendevano svolgere il programma secondo il progresso dei tempi. Gli uni e gli altri privi di quella vibrante passione che era stata la molla di tutta la sua attività e che aveva ispirato la sua dura vita di sacrificio.
      La raggiunta unità nazionale aveva agito come una improvvisa forza disgregatrice sul suo partito: molti eran passati nel campo monarchico; molti altri restavano dubbiosi, esitanti, incapaci d'agire comechessia; altri s'incaponivano in una intransigenza piccina che toglieva loro ogni possibilità di fare. Chi avrebbe raccolto la sua eredità? Saffi? Saffi è debole, incerto, privo di fuoco, povero d'iniziativa(721). Campanella? Campanella è buono, fedele, diritto, ma senza energia; è un buon esecutore, non può essere il capo(722). Quadrio? È vecchio. Lemmi? Non è uomo da tanto(723). Nessuno è capace di superare le difficoltà che sovrastano. E queste sono tremende, fra Garibaldi che tira da un verso, gli internazionalisti che tirano Garibaldi e fanno pencolare anche i piú fidi(724), gl'intransigenti, che lancian scomuniche a destra e a sinistra, tagliano tutti i ponti e non esitano a sfidare anche Garibaldi, i concilianti che non avendo idee in testa predicano pace, pace, pace.
      «Ti giuro che mi cascan le braccia - scrive Mazzini, scorato, a Campanella, il 26 gennaio 1872. - I buchi nel partito sono troppi perché io possa rattopparli.


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Mazzini e Bakunin
di Nello Rosselli
pagine 458

   





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