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      L'Inghilterra appare, e in qualche misura è davvero, l'arbitra della penisola. Gli evviva all'Inghilterra non sono che un sinonimo degli evviva all'Italia degl'Italiani; da Torino a Napoli si moltiplicano e s'inseguono le riforme principesche tenute a battesimo dai diplomatici inglesi; questi riparano in fretta alla ottusità dimostrata dai loro predecessori o da essi stessi negli anni della vigilia, uscendo fuor dal chiuso delle corti e dei ministeri e allacciando relazioni con uomini nuovi, che, pur non coprendo posti ufficiali, esercitano da tempo un'indiscussa autorità morale sui loro concittadini, e sono adesso alla testa dei vari partiti; e già il Foreign Office ritiene che sia giunto il momento opportuno per negoziare una revisione dell'assetto italiano in base ai suoi vecchi disegni, e già s'adopra a quell'uopo, quando - febbraio 1848 - scoppia la rivoluzione a Parigi, con le conseguenze che tutti sanno: automaticamente la Francia si pone e s'impone come la protettrice naturale d'ogni movimento progressista nella penisola, automaticamente essa riprende in Italia le posizioni perdute. L'Inghilterra, assalita dal dubbio di avere negli ultimi due anni lavorato, in realtà, a pro della sua grande antagonista, fa precipitosamente (e con l'usata disinvoltura) macchina indietro, si riaccosta all'Austria, tende tutte le sue energie all'intento di sopire l'effervescenza italiana. Scoppiata poco dopo, e a suo dispetto, la guerra austro-sarda, sua mira suprema sarà quella d'impedire un intervento francese: ed anche per questo, seppure invano, essa si sforzerà di far comprendere all'Austria la convenienza di una sollecita cessione della Lombardia al Piemonte, indipendentemente dalle sorti del conflitto.


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Saggi sul Risorgimento
di Nello Rosselli
pagine 380

   





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