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      Accenno, ahimè, tutt'altro che superfluo, quando per un poco si tengan presenti le inaudite deformazioni e i camuffamenti che il programma bandito dal Montanelli ebbe allora a subire per parte dei suoi avversari politici.
      Ma torniamo a Torino e a quella notte del 15 luglio. Uscito da palazzo reale, il Montanelli si affrettò dunque dal Kossuth, dal Valerio, dal Bianchi, ai quali riferí le dichiarazioni imperiali(308). L'indomani egli riprendeva, con raddoppiata lena, le trattative per l'armamento dell'Italia centrale: non aveva, è vero, alcuna posizione ufficiale, ma mentre in qualche modo poteva dirsi il rappresentante dell'ala sinistra del patriottismo toscano rallié alla monarchia, poteva parlare altresí nel nome di Garibaldi. E Garibaldi alla testa di un esercito dell'Italia centrale non era già di per sé un apporto d'immensa importanza oltreché tutto un programma politico? Celestino Bianchi concordava con lui pienamente, almeno per allora: al punto che, essendosi il Montanelli, quella stessa mattina del 16 luglio, profferto di servire la causa toscana nel miglior modo che a lui fosse possibile ormai, recandosi cioè in missione a Parigi, dove avrebbe potuto mobilitare tutte le preziose sue aderenze, specie nel mondo giornalistico, e insieme fruttare a beneficio del suo paese la confidenza ripetutamente dimostratagli dall'imperatore, lo stesso Bianchi senz'altro s'impegnò di riferirne a Palazzo Vecchio, aggiungendo «che sperava che l'offerta dei suoi servigi non sarebbe stata respinta». Riteneva il Bianchi davvero utile il conferimento di un incarico del genere al Montanelli, oppure non ad altro mirava che ad allontanarlo dalla Toscana, dove - il Montanelli stesso doveva convenirne - egli avrebbe potuto diventare, suo malgrado, «bandiera di agitazione a causa dei suoi precedenti?


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Saggi sul Risorgimento
di Nello Rosselli
pagine 380

   





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