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      Mazzini muore sconfortato, in piena crisi del suo partito, abbandonato dalle piú giovani e promettenti forze, convinto della intima debolezza dei suoi piú fidi, quasi tutti vecchi e sfiduciati, divisi da dissensi, talora non lievi, e da rancori personali. L'amarezza sua è cosí profonda che a volte anche la lotta gli pare inutile; unico bene il suo riposo eterno. «Le delusioni di ogni genere - egli scrive a un repubblicano in Svizzera nell'ottobre 1871 - hanno ucciso in me l'entusiasmo e ogni capacità di gioia o di solo conforto, fuorché quello che viene dagli affetti; non il senso del dovere. Tento quel poco che tento per un'Italia ideale e per uomini ch'oggi non sono. E se questo senso religioso non si fosse per ventura serbato in me, mi sarei ucciso...»(448).
      Sí, aveva ragione Agostino Bertani quando, la sera dei funerali di Mazzini, agli amici raccolti e pensosi dell'avvenire, diceva che, morto il Maestro, l'Internazionale «sarebbe entrata a scindere il partito repubblicano e assai presto se ne sarebbe sentita l'azione..., sarebbe forse venuto del sangue, sarebbe cominciata l'età delle ire, che, invece di affrettare, avrebbe ritardato di chi sa quanto l'attuazione degli ideali sociali emananti dalla dottrina del Maestro»(449).
      Ma, qualche mese piú tardi, Marx ed Engels s'accorgono che la crisi del mazzinianismo, dalla quale essi hanno tanto sperato per il vantaggio della loro corrente, si è risoluta a tutto favore del collettivismo anarchico: Bakunin, sfruttando il malcontento generale e la sua perfetta conoscenza dell'ambiente italiano, ha tirato verso di sé il rivoluzionarismo verboso degli internazionalisti italiani.


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Saggi sul Risorgimento
di Nello Rosselli
pagine 380

   





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