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      Ebbene ora si predicherebbe il gradualismo, la fede nelle istituzioni democratiche e nelle riforme, in nome di Marx, di un Marx riveduto, integrato, ammansito. L’importante era pur sempre potersi richiamare a Marx: salvare la tradizione, evitare che gli estremisti potessero monopolizzare il suo nome, dimostrare ai fedeli che nulla di sostanziale era mutato, che si sacrificava talvolta la lettera, ma per salvare lo spirito immortale.
      Ciò avveniva nei primi anni del nuovo secolo per un processo talmente spontaneo e diffuso che evidentemente rispondeva a profonde ragioni d’essere del movimento che vano sarebbe qui criticare troppo acerbamente. Solo è lecito considerarne sinteticamente gli effetti. E gli effetti furono che i frutti della battaglia revisionistica andarono in gran parte perduti. Quando proprio sembrava che la élite della nuova generazione fosse per emanciparsi dalla servitú marxista, essa rientrava, solo armata di qualche riserva formale, nel solco tradizionale. Fu una conciliazione (tra teoria e realtà, e tra revisionisti e ortodossi) tutta esteriore, apparente, in funzione delle contingenze e del prevalere delle tendenze: e non il superamento di una crisi che avrebbe dovuto svolgersi, prima e soprattutto, nell’intimo delle coscienze. Nei rivoluzionari fu un fenomeno di ipocrisia o di cecità; nei riformisti di debolezza. Fu imboccata la via della minor resistenza, la via equivoca degli adattamenti e della casuistica. La querela si fece scolastica, scontentò e allontanò i migliori, diseducò, o meglio, non educò le masse, e vietò per troppi anni ancora quella coraggiosa chiarificazione ideologica che è oggi condizione sine qua non per una gagliarda ripresa socialista.


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Socialismo liberale
di Carlo Rosselli
pagine 184

   





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