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      Non parliamo poi del problema della felicità.
      Ormai la tendenza predominante, nel campo socialista, è in favore di forme di conduzione per quanto possibile autonome, sciolte, correlative ai vari tipi di imprese, che ne rispettino le tanto varie esigenze: forme municipali, cooperative, sindacali, gildiste, trustiste, forme miste, con innesto dell’interesse generale sul particolare, forme individuali e famigliari, a seconda delle tradizioni, della tecnica, dell’ambiente, ecc. Dello Stato industriale, commerciante, agricoltore, tutti hanno uno scarso concetto, a meno non si tratti di servizi pubblici essenziali. Diciamo di piú: nessun socialista si attenta piú a sostenere a priori, in forma generale, la formula socializzatrice. Comincia a farsi strada in molti studiosi eminenti (vedi la recente clamorosa conversione di G. D. H. Cole, uno dei piú acuti socialisti britannici) la convinzione che per certi rami di industria il problema piú importante è quello della democratizzazione del regime di fabbrica e del controllo della direzione tecnica e sociale nell’interesse della collettività. E anche per quei rami piú progrediti e routiniers in cui è evidente sin d’ora la possibilità e la utilità di una socializzazione, si ha anche cura di avvertire che non vi si potrà giungere comunque di colpo, ma gradualmente, a passi mediati, con adeguato corredo di esperienze e di capacità. Insomma pare a me che quella giusta riserva che, in nome del liberalismo, si poteva avanzare contro l’astrattismo e l’utopismo degli antichi programmi socialisti, sia sulla via di essere superata per il trionfare del buon senso, dell’esperienza, delle lezioni pratiche del moto, e soprattutto per le sopravvenute responsabilità di governo.


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Socialismo liberale
di Carlo Rosselli
pagine 184

   





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