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      - Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso violinista?
      - Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi che costui abbia molto appreso.
      - E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino; ma costui lo fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano attender parole e discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava col principe di Prussia, ch'ora è il re Federico II, per l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva spiegare il modo con cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione e del legno del suo violino, chi dell'animale che avea date le corde. E nessuno s'accorgeva che il gran segreto era nell'arco, nel modo di governarlo, nella sua pressione sulle corde. Mi diceva il medesimo Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù nel tirare di scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel polso, la quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo; perchè tutto dev'essere strano e straordinario in costui. La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i titoli delle sue composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e dì e notte tirava di scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li sfidava e li ammazzava a titolo d'esercizio. Va a sentir Veracini a Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si nasconde in Ancona per sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e fare la famosa scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a centinaja, e un trattato sulle amenità del canto.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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