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      I medesimi sostenitori d'essa, a forza di commentarla e confortarla e mostrarne la validità, facendo passare e ripassare innanzi alla mente degli ascoltatori non propensi, nei momenti più caldi della disputa, la lettera del diritto romano e quella dello statutario e quella dei criminalisti, avean fatte balenare molte verità che dimostrarono la fallacia; verità inchiuse in quegli articoli medesimi stati scritti per darle vigore.
      Molte volte il senator Gabriele Verri, che era un partigiano della tortura, aveva detto e ripetuto in Senato quel titolo cospicuo del Digesto, dove è parlato della fragilità e del pericolo della tortura; esso lo aveva ripetuto perchè, avendo fede in quel mezzo, pretendeva che si adempissero tutti i suoi preliminari con rigore di scrupolo; persuaso com'egli era, che, adempiendo con esattezza a tutti i dettami della legge, prima di decretar la tortura, questa non poteva infliggersi che al veramente reo, la cui ostinazione poi era presumibile potesse domarsi solo coi tormenti. L'uomo dialettico e preoccupato, correndo con precipitazione alle conseguenze ultime, non aveva mai saputo fermarsi un momento di più su quel titolo, ch'ei non adduceva che per provare la necessità dell'esattezza aritmetica nel raccogliere indizj; ma che, in realtà, inchiudeva già tutta quanta la condanna della tortura nel punto stesso che le dava sanzione; bensì vi s'erano fermati gli uomini meno preoccupati e meno oppressi dal cumulo della dottrina e più illuminati dal raggio del sentimento, e ne eran rimasti colpiti, e tra questi il marchese Recalcati appunto, il quale, per consueto, andava sempre a rilento e come di malavoglia quando trattavasi di ministrare la tortura.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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