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      Il palazzo dell'Archivio aveva smarrita l'unità della primitiva architettura che fu convenuto di chiamar longobarda; il tempo e, peggio del tempo, gli uomini lo avevano già reso informe per cattivi riattamenti, per aggiunte importune, per la preoccupazione di servire al comodo passeggiero senza rispetto di sorta alla forma decorosa; pure, con tutto questo, nella sua apparenza di un edificio che aspetta di essere compiutamente ristaurato, presentava ancora alcune parti solenni della vetusta architettura, e segnatamente i finestroni sopra i portici. Per questa stessa mescolanza poi di più elementi, il talento pittorico ne avrebbe al certo potuto cavar qualche bizzarro partito per una scena prospettica, quando si fosse saputo fare una bella scelta del punto di vista.
      Quei sei finestroni aperti in alto nei lati più ampi dell'edificio bastavano a ricordare e il tempo in cui esso era stato innalzato, e tutte le idee concomitanti che quello svegliava: finestroni aperti a grand'arco tondo, circoscrivente tre bassi e piccoli archetti addentrati e sostenuti da due leggiere colonne. Tanto i pittori però, che gli architetti di quel tempo, erano così lontani dal vedere con buon occhio la conservazione di quelle, secondo loro, barbariche finestre, quanto noi dal congratularci cogli architetti vandalici che fecero poi scomparire quelle aperture, richiamanti l'età splendida dei liberi Comuni ed apersero nel piano aggiunto i giganteschi occhi di bue i quali comunicarono a tutto l'edificio quella pesantezza goffa, onde tutta la piazza e i decorosi e squisiti edificj di essa par come che ne rimangano oppressi.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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