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      Non a caso ci arrestiamo a lungo su queste cose, e le assennate madri ci comprenderanno. Ad ogni modo, anche disprezzando ciò che in queste righe si adombra a combattere certe consuetudini, dovevamo dir tutto per far vedere in che collegio donna Paolina aveva passato gli ultimi diciotto mesi della sua educazione, e su che palco scenico, nella sua qualità d'allieva emerita, era venuta a rappresentar la parte di protagonista nel Dragone benefico del prof. Ghedini.
      Richiameremo ora al lettore come la prima sera che essa andò in iscena, in quel costume, suscitò, plasticamente considerata, un tale capogiro, che, nelle successive rappresentazioni, il teatro della Scala e della Canobbiana e di Sant'Anna e di San Martino rimasero abbandonati dalla parte più scelta della cittadinanza, e dalla parte più giovane e più brillante dell'ufficialità, di modo che le mammine leggiadre si trovarono spostate e punte, e si lamentarono di avere edificato a vantaggio altrui.
      Donna Clelia, allorchè nel segreto delle pareti domestiche vide, a titolo di prova, quel diabolico angelo di diciasette anni in quel costume provocatore, il quale faceva risaltare voluttuosamente delle forme, il cui obbligo era quello di rimaner celate; protestò altamente, e disse che non ne voleva altro, e che la signora direttrice provvedesse a cambiare il protagonista. Ma la fanciulla, che era già stata lodata alle prove, perchè possedeva un talento drammatico assai distinto; e guardandosi nello specchio, quando le fu recato l'abito, scoperse di esser molto più avvenente di quello ch'ella stessa credeva, diede in tali escandescenze a sentire quel veto inatteso della nonna, che la mamma, la nostra cara Ada, la quale era meno rigida di donna Clelia, e aveva il suo amor proprio, e sentiva la compiacenza d'aver ella stessa messo insieme quella leggiadra figura, compiacenza che era un misto d'amor di madre e d'amor d'artista; si sentì commossa alle lagrime iraconde e agli strepiti della sua Paolina; e tanto disse e fece, che la contessa Clelia, crollando la testa, lasciò che la cosa andasse.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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