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      Del resto, il profondo silenzio, fatto da tanto popolo accorso non giovò che a coloro che si trovavano sull'aja propriamente detta; agli altri fu molto se l'onda sonora portò qualche perduto monosillabo; e in questa condizione ci troviamo anche noi, posteri non lontani; chè quel discorso non fu messo a stampa, nè serbato manoscritto, onde non possiamo farlo riecheggiare agli orecchi dei nostri lettori. Nè il Camillone di Trastevere che lo sentì a suo agio, perchè stette ben vicino al generale, si occupò di riferirlo; bensì conchiude con queste segnalate parole: «Chi poi si lamentasse del tacere nostro, pensi a credere che dopo le parole del nostro buon Corona, quelle del generale ti paiono più che altro fuochi di festa e di luminaria che rintronano nell'aria senza lasciare traccia nè di lume nè di colpo.» Stando infatti anche al giudizio d'altri testimonj, il generale Cervoni deve aver dette tante e tante cose in quell'occasione, e con tale esagerazione e di pensiero e di parole, che nel troppo andò perduto anche il poco, e nelle pompose generalità rimase celato il concetto chiaro delle cose. Ma ciò è naturale: Cervoni, quantunque fosse italiano e, al pari di Bonaparte, sentisse tutta l'importanza della questione romana, pure parlando sotto l'orecchio di quell'oca di BerthierNapoleone che così lo chiama), non voleva parlar dell'Italia in modo che il Francese si adombrasse.
      Compiuta la solennità dell'instaurazione della repubblica romana, alla quale assistettero cinque pubblici notaj che rogarono l'atto, in quel medesimo giorno il generale Cervoni si presentò a Pio VI per intimargli a nome della repubblica francese, che si preparasse a lasciar Roma e a partire per Siena, facendogli sentire come il papato avesse a entrare in una nuova fase e l'Italia fosse chiamata a nuovi e grandi destini.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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