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      Ci troviamo confusi nella folla davanti al palazzo di corte, in una notte di febbrajo. I dragoni reali rasentano la punta dei piedi dei curiosi, che si accalcano per vedere gli dèi e gli eroi, le dee e le semidee a discendere dai cocchi. L'aere nebbioso risuona dei boati plebei di cocchieri impacciati a stare in fila, periglianti nelle voltate, attraversati dai gendarmi a cavallo, urlanti e minaccianti come Argivi e Trojani nel fitto della mischia.
      Ed or s'è fatto un po' di largo; procedono le carrozze. Ecco quella del duca Melzi, il guardasigilli della Corona. Le due livree gallonate e passamantate balzano a terra. Si spalanca la portiera, la gradinata si snoda, e si riversa sino a terra. Sua Eccellenza lentissimamente discende a mostrare una testa veneranda, che nasconde la santa calvizie sotto una crosta fatta di cipria a ricordare i tempi lieti del topé; S.E. è coperta da una assisa ampia, larga, lunga, tesa, non suscettibile di piegatura, come se fosse foderata di legno; tutta quanta aspra di ricami d'oro a rilievo, a somiglianza d'un piviale del Corpus Domini. Egli ascende lo scalone; parte la sua carrozza; altre subentrano. I generali Pino e Solaroli smontano e ascendono a lievi salti. Arriva Fontanelli, il ministro della guerra; arriva il marchese Cagnola nella duplice sua qualità di signore e di artista. Arrivano in un fiacre di gala il medico Monteggia e lo speziale Porati. Arriva il gran giudice Luosi, tutto sprofondato nel suo immenso cravattone bianco. Vaccari e Bovara e Birago e Marescalchi sono già saliti da mezz'ora, dicono gli spettatori irremovibili, indarno ammaccati dal calcio del fucile del granatiere.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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