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      Sempre si cominciò coll'allegria e il geniale buon tempo, per finir sempre coll'affanno, colle sventure e col beccamorto. Possiamo assicurare che questo per noi non fu mai un sistema adottato. Bensì, contro ogni disegno, fu una riproduzione spontanea della maggior parte delle vicende onde è contesta la vita pubblica e privata degli uomini. Troppo spesso si comincia colla giocondità, colle speranze e coi castelli in aria; quasi sempre si finisce coi disinganni e colla disperazione.
      E anche questa volta, se precisamente non ci è dato rimetterci a sedere o in teatro o all'osteria, dobbiamo però incominciare il preludio della nuova opera seria con un andantino allegro, ma che, pur troppo, è destinato a preparar dalla lunga e attraverso a processi e a successioni inattese di toni, le frasi strazianti di una catastrofe degna di un Romeo moltiplicato per tre. A noi vengono i brividi al solo pensarci.
      La notte del 19 marzo 1820, giorno consacrato a San Giuseppe, il santo nel cui nome l'autore dei Cento anni è stato battezzato; sulla piazzetta dei santi Pietro e Lino, due inservienti dei Regi Teatri prepararono in gran segreto una orchestrina sotto al balcone di un primo piano d'una delle case che rispondevano su quella piazzetta.
      Quasi contemporaneamente vennero là portati un contrabbasso, un violoncello, quattro cassette da violino e viola, ecc. Di lì a non molto sopraggiunsero gli egregi suonatori, o professori, quasi tutti appartenenti all'orchestra della Scala: Merighi il violoncellista, Rabboni il professore di flauto, Yvon d'oboe, Corrado il suonatore di clarinetto, Cavinati e Migliavacca incliti violini di spalla, Majno prima viola.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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