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      Quell'uomo aveva sortito dalla natura, e aveva avvalorate colla più rigida costanza nelle abitudini della vita, tutte le qualità che costituiscono i santi; ma i santi senza talento. Il sentimento, il cuore, le intenzioni erano mirabili; ma la mente non era di quelle che Romagnosi, a scrupolo di scienza, chiamò sane.
      Egli aveva preso con soverchio rigore matematico il detto e il fatto, che il mondo non è che un luogo di passaggio. Per questa ragione, riputando che l'uomo non deve mai nè pensare nè operare se non nell'intento supremo di meritarsi un posto nel regno de' cieli, aveva sgomento e avversione di tutto ciò che può rendere più cara e più attraente ai mortali la vita mondana; in certi momenti in cui lo invadeva più del consueto il sacro furore dell'ascetismo, avrebbe voluto che la luce del firmamento fosse lugubre e uggiosa, che le stelle inviassero sulla terra un raggio sinistro, che i fiori non avessero fragranze, che le donne non avessero avvenenza. A forza d'adorare Iddio, di non pensare che a lui, di credere che ogni cosa si dovesse fare quaggiù onde glorificarlo, per uno strano pervertimento del suo giudizio, di cui non aveva la consapevolezza, veniva di tal modo ad offendere Dio stesso, rifiutando e biasimando gran parte delle opere sue mirabili. Non arrivò mai a sospettare che il fattore del mondo, se ha dato alla più squisita delle sue creature tanti doni seducenti, non lo deve aver fatto a caso; che il rifiutare quei doni stessi era un cessare dalla sua adorazione.


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Cent'anni
di Giuseppe Rovani
pagine 1507

   





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