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      Appena avevo varcata la soglia della camerata, ebbi una gradita impressione: don Silvestro non c'era più, essendo stato licenziato, e un'altra faccia stava al suo luogo. Io ne gongolavo: ero almeno stato l'istrumento di qualche bene ai miei compagni di camerata; e questo era per me un conforto. Ma ohimè! in che stato di confusione, o piuttosto di rovina, ebbi a trovare quel governo, che avevo lasciato così florido e promettente solo quindici giorni prima! La sua rovina era dovuta alla eccessiva severità del principe Giuseppe. Invano Alfredo, nominato console in luogo mio, si era sforzato di moderare l'impetuosità del collega. Era una specie di manìa in quel ragazzo: per il più piccolo reato decretava immancabilmente la pena dell'ostracismo. A farla breve, le cose erano venute al punto che i più della camerata (sembra appena incredibile tale assurdità!) i più, dico, della camerata, erano incorsi nell'ostracismo. Allora gli sbandeggiamenti avevano stabilito un controgoverno, nominato i loro propri consoli e deposti gli antichi, i quali però si mantenevan tuttavia in carica presso i loro aderenti. Per tal modo eravamo alla guerra civile, e di momento in momento si poteva temere un cozzo tra i due partiti. Tutti questi ragguagli mi furono dati da Alfredo con le lacrime agli occhi: "Noi non abbiamo altra speranza che in te", soggiunse egli: "tu solo puoi salvarci".
      Queste notizie mi misero in gran costernazione, e fino ad oggi non potrei dire se allora avessi trovato in me animo abbastanza risoluto ed energico per l'erculea impresa di accomodare le cose, o meglio di tentare un accomodamento, quando appunto, mentre stavo dibattendo dentro di me il pro e il contro di tale tentativo, venne nella sala di studio il P. Ministro, facendo sapere al Prefetto che, per ordine del Padre Rettore, i signori Lorenzo ed Alfredo dovevano passare dalla seconda camerata nella prima.


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Lorenzo Benoni ovvero scene della vita di un italiano
di Giovanni Ruffini
pagine 471

   





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